L’attentato a Ranucci non è un attacco al giornalismo, ma alla democrazia intera
Quello di stanotte non è un caso isolato, è la conseguenza diretta di anni di isolamento e repressione del giornalismo che racconta la verità
Gaia Canestri | 17 ottobre 2025

Stanotte un ordigno ha fatto esplodere la macchina di Sigfrido Ranucci e di sua figlia. Si tratta di uno dei giornalisti d'inchiesta, nonché conduttore di Report, più autorevole e che più si è battuto per quella verità sacra a chi si occupa di giornalismo. Nessuno è rimasto ferito, nonostante la potenza dell'esplosione avrebbe potuto farlo. Gli investigatori hanno dichiarato che si è trattato di un chilo di esplosivo posizionato tra l'auto e il cancello; lo scopo è ben chiaro, soprattutto alla luce delle dichiarazioni del giornalista che ha rivelato di essere stato minacciato più volte negli ultimi mesi, addirittura con dei proiettili.

Quello che ci sembra a primo impatto un caso isolato seppur gravissimo, in realtà non lo è affatto. L'attentato di stanotte è il figlio legittimo di un clima di odio nei confronti di racconta la verità a costo della vita, e che la classe politica ha ben coltivato nell'ultimo decennio attraverso la delegittimazione e l'isolamento di chi fa inchiesta.

Gli anni neri del giornalismo non sono poi così lontani 

Non succedeva da trenta anni di vedere un attacco al giornalismo di tale portata. Qualche settimana fa ricordavamo Giancarlo Siani, giornalista morto nel 1985 per le sue indagini sulla camorra, ripromettendoci che non sarebbe più successo, forti della democrazia che ci circonda e sicuri del fatto che quegli anni lì, della mafia e della camorra, li abbiamo sconfitti. Ci sembrano lontane le stragi di Capaci e via D'Amelio, ancora di più quella di Peppino Impastato a Cinisi. Abbiamo vissuto per anni con la convinzione che i tempi siano cambiati senza chiederci effettivamente cosa significhi democrazia, ma soprattutto senza comprendere che il giornalismo è una delle sue colonne portanti. Ora che inchiesta, potere e verità sono di nuovo su binari diversi, gli anni neri del giornalismo tornano a chiederci il conto delle nostre dimenticanze.

Democrazia e libertà di stampa sono sinonimi 

Gli anni che ci separano dalle grandi stragi non sono stati anni di ricostruzione dei valori della democrazia, ma di negazione profonda, seppur silenziosa, dei suoi principi più profondi. Quando i padri costituenti diedero vita alla Costituzione nel 1948 riscrissero la democrazia partendo dalle sue fondamenta: così inserirono nella Carta i diritti che più di tutti erano stati negati durante il fascismo e che da allora avrebbero meritato il rispetto più puro ed elevato, tanto da essere praticamente intoccabili persino dai politici e da chi le leggi le fa. In quella Carta c'è anche il diritto alla stampa, articolo 21, uno dei principi più protetti in costituzione forse solo dopo quello di eguaglianza. I padri costituenti lo sapevano bene: il primo passo per colpire la democrazia è piegare la stampa, poi silenziarla, infine eliminarla. Solo allora, quando non esiste più il pluralismo, quando non esiste più nessuna voce che possa contraddire e svelare il potere, allora si potrà intaccare davvero la democrazia.

Dico che si è trattata di una negazione silenziosa perché nonostante questo diritto non possa essere leso dal punto di vista giuridico, non sono certo mancati negli anni attacchi al giornalismo su più fronti: basta pensare a una Presidente del Consiglio che ammette in fuori onda di non amare confrontarsi con i giornalisti e che non tiene una conferenza stampa per quasi 300 giorni. C'è poi un'altra questione spinosa: la costante delegittimazione di chi fa inchiesta che ci ha portato al sprofondare al 49esimo posto nella classifica dei Paesi che rispettano la libertà di stampa, poco sopra agli Stati Uniti. Non c'è da stupirsi: secondo il report di La Via Libera solo nel 2023 sono state impugnate azioni legali contro 102 giornalisti, e il numero più alto riguarda proprio l'Italia. Senza contare gli attacchi informatici ma soprattutto quelli fisici: non sono mai stati uccisi tanti giornalisti come nell'ultimo anno.

È vero, oggi tutti i vertici del Paese hanno espresso estrema solidarietà nei confronti di Ranucci, ma la stessa solidarietà è mancata quando a luglio sono state tagliate senza precedenti 4 puntate di Report, il programma d'inchiesta più apprezzato in Italia, o quando a Ranucci è stata negata la responsabilità della firma, o in qualsiasi momento sia stata smantellata tassello dopo tassello quella libertà sacra ai padri costituenti dalle stesse persone che avrebbero dovuto proteggerla.

"Gesto gravissimo, vile, inaccettabile" dice Crosetto, Meloni replica condannando il fatto, "la libertà e l'indipendenza dell'informazione sono valori irrinunciabili nelle nostre democrazie e che continueremo a difendere". Si esprime anche Piantedosi, che ha rafforzato al massimo ogni misura di protezione, poi Nordio che parla di attentato allo Stato. Ma la storia della nostra Costituzione non è un un asso da tirar fuori all'occorrenza, dovrebbe essere invece la guida di ogni azione, perlomeno di chi agisce in nome della Nazione. Battersi per il giornalismo, per la libertà di stampa e per l'inchiesta non ha colore politico: è invece la dimostrazione che mai come ora si ha a cuore la democrazia e chi la abita.