Valerian e la città dei mille pianeti
L’avventura spaziale firmata dal regista francese Luc Besson è arrivata al cinema ma, nonostante il budget stellare, si preannuncia come uno dei più grandi flop dell’anno
Alessandro Preanò | 16 ottobre 2017

Il cinema, come tutte le forme d’arte, rappresenta la più intima volontà del suo creatore di esprimere il proprio essere. Ciò avviene principalmente attraverso due componenti che rendono un’immagine, una tela o dei semplici versi vera e propria arte: forma e contenuto. Forma e contenuto possono essere immaginate idealmente come due rette perpendicolari che, quando si incontrano, raggiungono ciò che noi chiamiamo arte. A volte però – potremmo dire molto spesso – forma e contenuto non riescono a svilupparsi analogamente, e le due rette tenderanno all’infinito senza mai toccarsi. È quello che succede nell’ultimo colossal fantascientifico di Luc Besson: troppo fumo e poco arrosto.

Luc Besson torna sul grande schermo con un’opera costosissima (investimento da 197 milioni di euro e titolo di film francese più costoso di tutti i tempi) cadendo però spesso in banalissimi clichè fantascientifici e in enormi vuoti strutturali che rendono il film superficiale ed eccessivamente debole. Besson ha affermato di aver iniziato a immaginare il multiforme universo di Valerian dall’età di dieci anni attraverso l’omonima serie a fumetti ideata nel 1967 da Pierre Christin e illustrata da Jean-Claude Mézières. La serie è stata il principale spunto per la creazione dell’universo futuristico e distopico de Il Quinto Elemento, pellicola simbolo della filmografia del cineasta francese insieme all’intramontabile Leòn. A differenza de Il Quinto Elemento, la sceneggiatura si mostra troppo incoerente e citazionista: superficiale quando cerca di far emergere temi molto attuali quali il multiculturalismo e la responsabilità occidentale (perché i riferimenti agli Stati Uniti diciamo che non sono particolarmente velati); banale nel creare una lovestory di sfondo vista e rivista tra due personaggi fin troppo deboli perché nonostante tutto l’hype creato e creatosi intorno al film, diventa veramente difficile trovare qualcosa di positivo e di originale.

Il film si apre con una semplice quanto inconsistente sequenza che ritrae il progresso aerospaziale fino al 2740, anno in cui è ambientata la vicenda, con la sempreverde e sempre abusata Space Oddity di David Bowie. Valerian (Dane De Haan), giovane scanzonato e pieno di sé, e Laureline (Cara Delevingne), apparentemente più complessa e interessante, sono due agenti speciali incaricati di mantenere l’ordine nell’universo, agli ordini del Ministro della Difesa (Herbie Hancock) e di un irriconoscibile Clive Owen nei panni del comandante Arun Flitt; il compito dei due protagonisti è di recuperare l’ultimo Mül Converter, strano animaletto con poteri difficilmente definibili e in grado di salvare l’universo. L’inutile cameo di Rihanna e la presenza di insopportabili creature meravigliosamente realizzate grazie ai moderni strumenti di computer grafica (tra di loro il premio per l’insopportabilità assoluta viene facilmente vinto dai i Doghan Daguis, una sorta di informatori multilingue che esistono come un trio) non riescono a far decollare la pellicola in modo convincente. La mancanza di un plot twist in grado di sconvolgere la narrazione non aiuta di certo Besson nel suo intento di realizzare un’opera visionaria e struggente: in certi momenti sembra di essere di fronte ad un teen movie visivamente all’avanguardia ma povero di qualunque altra componente tematica. Inoltre i due protagonisti non sono in grado di coinvolgere sufficientemente il pubblico: Dane DeHaan, astro nascente del cinema contemporaneo, non sfigura nel ruolo di Valerian, ma sembra già adatto a ruoli più complessi e ad atmosfere più cupe (la sua splendida interpretazione in Come un tuono ne è l’esempio); non si può sicuramente affermare lo stesso per Cara Delevigne, che appare ancora come un pesce fuor d’acqua sul grande schermo.

Valerian e la città dei Mille Pianeti si appresta quindi a diventare l’ennesimo flop di un cinema fantascientifico troppo presuntuoso e pretenzioso (rappresentato da uno sterile incasso al botteghino), che aspira a molto ma che incede inesorabilmente verso la ripetitività. Besson dimostra che gli effetti speciali non fanno il cult e che l’abuso di un’estetica troppo altisonante non sempre riesce a sopperire alla carenza di idee.