Riflessioni "a distanza" sulla DaD
La didattica a distanza ci propone una scuola capovolta, dove quasi tutto viene rimescolato e molto viene reinventato
Giuseppe Pulina | 6 aprile 2020

Non sappiamo quando finirà, ma è certo che quando accadrà, la fine non verrà salutata solo come una piacevole liberazione. La DaD, la Didattica a Distanza, è destinata a cambiare l’immagine e forse anche la visione d’insieme della scuola italiana. Abbiamo testato i benefici e l’utilità della didattica digitale e, nello stesso tempo, siamo stati messi alla prova. Noi insegnanti lo abbiamo fatto, e seguitiamo a farlo, non senza difficoltà e perplessità.

Accade anche di interrogarsi sull’efficacia normativa (su quella formativa non dovrebbero esserci dubbi) della DaD, un po’ disorientati (questo è, almeno, il mio caso personale) di fronte alla sempre più probabile decisione di riconoscere la promozione a tutti gli studenti a prescindere da qualsiasi condizione, anche dalla effettiva partecipazione alle attività didattiche tenute a distanza e dal numero delle assenze. Tra gli effetti possibili di questo proclama non ancora ufficializzato (se ne parla, ma si attende ancora una sua formulazione in forma di decreto) ci sarà – mi chiedo – la svalutazione di quanto è stato sinora fatto? Quale valore daranno i nostri studenti alle procedure valutative della DaD? È poco da benpensante ritenere che, così facendo, si potrebbe innescare un meccanismo disincentivante e che, in fin dei conti, la valutazione, pur sempre mirata alla promozione dello studente, è la quintessenza, la componente fondamentale, di qualsiasi azione didattica? Qui, sia chiaro, non si vuole rivendicare la difesa di una didattica basata sulla forza sanzionatoria del voto. Sogno da sempre una scuola senza voti, numeri e pagelle, ma quella che ora si potrebbe intraprendere sarebbe, a mio avviso, una rischiosa scorciatoia.

Vorrei ora proporre un secondo spunto di riflessione e chiedermi, girando l’interrogativo anche a colleghi e studenti, se quella che è in corso sia una reale, autentica, accelerazione verso un nuovo tipo di scuola. È bene che lo precisi: una scuola che cambia, che tiene il passo con il presente, una scuola che “addomestica” le nuove tecnologie, ottimizzandone l’impiego e contenendone gli abusi (l’educazione ai social, ad esempio), una scuola di questo tipo non mi dispiacerebbe. È, in fin dei conti, la scuola che vorrei. Tra gli entusiasti e i refrattari, tra gli apocalittici del “nuovo” e gli apologeti del “vecchio”, tra i misoneisti della didattica e i dispregiatori dell’usato sicuro, tra i “digitali” e gli “antidigitali”, non si è ancora alla resa dei conti. So che quando arriverà il momento, potrei trovarmi lungo la traiettoria di tiro e rischiare, come in parte già avviene, di venire impallinato dagli uni e dagli altri.

Ora, in conclusione, di queste disarticolate riflessioni sul presente della scuola italiana nei giorni dell’emergenza sanitaria, vorrei proporre una “licenziosa” analogia (“licenziosa” perché il paragone potrà sembrare mal posto e spropositato) tra quanto accade negli ospedali (dove, so bene, si rischia la vita e non un brutto voto in pagella) e quanto succede nella scuola. Penso alla carenza di dispositivi protettivi (mascherine, guanti, strumenti igienizzanti) che ha penalizzato pericolosamente l’operato dei medici. Anche la scuola ha dovuto fare uso di dispositivi per risolvere una situazione del tutto inedita, improvvisa e imprevista. Diciamo che è stata più fortunata perché è stato più facile trovare quei dispositivi (registri elettronici, piattaforme, webinar per la formazione, ad esempio) utili per una didattica alternativa. La scuola si è dimostrata ingegnosa e creativa, ma va detto, per onestà, che molti di questi strumenti erano già presenti e disponibili, attendendo solo che qualcuno li usasse.

In questi giorni abbiamo assistito a un testing di grandi dimensioni, con migliaia di insegnanti che per la prima volta si cimentavano con videoconferenze, aule virtuali e le mille risorse delle piattaforme digitali. La mobilitazione è stata imponente e decine di migliaia di insegnanti si sono rimboccati le maniche; i meno preparati (non esito a riconoscermi tra questi) hanno studiato, chiesto consigli, talvolta agli stessi studenti; là dove non c’erano delle buone prassi, queste sono state “importate” o generate ex novo; insomma, tutti, tranne poche eccezioni, hanno fatto e continuano a fare la loro parte (è così che mi piace chiamare questo sussulto di coscienza deontologica). Gli strumenti usati si stanno rivelando utili per fare fronte a situazioni eccezionali come l’attuale, ma si tratta appunto di situazioni straordinarie perché trascendono l’ordinario.

Una situazione da Flipped School, si potrebbe dire, da scuola capovolta, dove quasi tutto viene rimescolato e molto viene reinventato. Tutto ciò non dovrà farci dimenticare che compito della scuola sarà quello di ripristinare la normalità, ricostruendo rapporti interrotti e facendo ancora una volta dell’aula un luogo intellettualmente e affettivamente caldo. Perché la DaD non è male, ma sarebbe sbagliato esagerarne e sopravvalutarne la portata.