Definire il femminicidio
La mancanza di una definizione univoca del fenomeno potrebbe complicare la lotta ad esso
Giovanni Piaggio | 3 giugno 2021

Negli ultimi anni il fenomeno dei femminicidi è salito alla ribalta, passando dall'essere argomento di cui è tabù parlare ad essere uno dei più discussi. Al telegiornale, sui mass media, nei notiziari, sui siti di divulgazione, ovunque vengono riportate notizie tragiche di donne uccise per mano di uomini con cui avevano o avevano avuto una relazione.

Ma che cos’è esattamente? A questo punto, che abbiate o meno la risposta pronta non ha importanza, vi sfido a cercare il termine su Google e consultare diverse fonti di informazione: presto vi accorgerete di non riuscire a trovare due definizioni interamente conformi l’una all’altra. Questo perché il termine viene sovente trasfigurato a utilizzato a sproposito non solo nell’accezione, ma anche negli stessi dizionari moderni. C’è chi si sofferma sull’autore del delitto, che può essere il marito, il fidanzato, o l’ex-partner della donna, ma in alcuni casi nella lista vengono inclusi anche il padre, il fratello, il cugino, o addirittura il figlio. Altri preferiscono evidenziare il movente dell’omicidio, come il possesso, la superiorità, la vendetta, l’oggettificazione, la misoginia.

Uccisa in quanto donna?


In alcuni casi viene data unicamente importanza alle caratteristiche della vittima, con la classica definizione “omicidio di una donna in quanto donna”, un concetto che può voler dire tutto e niente, perché letteralmente sarebbe riconducibile al movente della misoginia. Ma secondo alcune divulgatrici, tra cui anche la blogger e scrittrice Michela Murgia, essere donna comporterebbe in automatico, in un contesto patriarcale, una condizione di inferiorità che costringe la stessa soggetta a una serie di soprusi che talvolta possono sfociare nel femminicidio.

La stessa si riferisce però al termine “femminicidio” come a un concetto prettamente figurato, che indica l’oppressione subita dalle donne in passato e che viene perpetrata in parte ancora oggi, per questo si parla spesso di “morte professionale”, quando una donna viene relegata ad occuparsi della casa e ad accudire i figli senza possibilità di costruirsi un futuro lavorativo attivo. 

Difficile limitare il campo


Se poi pensate che la confusione ideologica riguardi soltanto la popolazione media, vi sbagliate. Persino i più importanti centri di statistica e informazione come l’ISTAT riportano definizioni e dati con evidenti contraddizioni logiche. Teoricamente dovrebbero seguire l’enunciato ufficiale della Polizia di Stato del 2018, per il quale “il femminicidio è l’omicidio di donne in ambito familiare per ragioni di genere”, che è forse la meno chiara tra tutte, perché non è chiaro cosa includa nei “motivi di genere”. Infatti, considerando solo la vendetta e il possesso per l’imminente fine di una relazione, nello stesso anno sono stati registrati 32 femminicidi, mentre estendendo il campo  a tutti i precedenti autori e i relativi moventi, il numero saliva fino a 101. 

Cosa dice la legge


A fronte di tutta questa confusione concettuale, viene spontaneo chiedersi quale sia il metodo con cui viene catalogato l’omicidio di una donna in campo giudiziario; ebbene il femminicidio in legge non esiste. In Italia esistono aggravanti se l’uccisione avviene all’interno di una relazione stabile, ma non si prendono in considerazione né particolari moventi né il genere della vittima e del carnefice.

Le conseguenze di una mancata definizione

 

Il termine è stato coniato con il fine principale di far luce su una grave problematica di tipo culturale, ma se questo viene costantemente trasfigurato diventa impossibile conoscere bene “il nemico comune”. Di conseguenza sarà quasi impossibile rallentarlo e tantomeno fermarlo, mentre sarà destinato a rimanere soltanto uno slogan popolare.