Comunicare l'emergenza in radio
A colloquio con Massimo Alesii in occasione della partenza del progetto “Codice Uno”
Romina Ferri | 9 marzo 2020

Proprio in questi giorni è partito Codice Uno, un progetto di Netlit che ha come capofila l’Istituto Comprensivo di Savignano sul Panaro vincitore del Bando “Piano nazionale per la Partecipazione alla vita scolastica e la promozione dell’educazione alla cittadinanza attiva” del MIUR. La scuola è in rete con i Licei statali Francesco Angeloni di Terni e il Convitto D. Cotugno de l’Aquila. Codice Uno prevede una fase di formazione da parte di esperti e la produzione di trasmissioni radiofoniche sull’emergenza da parte degli studenti che impareranno a usare le tecniche radiofoniche per comunicare e raccontare il territorio. Massimo Alesii, titolare dell’A.G.T. Communications, membro della federazione FERPI e coautore di un libro intitolato “Disastri naturali: una comunicazione responsabile?” illustra il ruolo centrale della radio nella comunicazione d’emergenza.

Che ruolo ha la comunicazione nella percezione e nella divulgazione delle informazioni?

Oggi la comunicazione è una base integrante dei problemi di gestione di emergenza e crisi. In questo tipo di protocolli la comunicazione è uno dei processi di cui si deve assolutamente tenere conto sia per normative e prassi che fanno riferimento alla Protezione Civile nella fase di emergenza acuta (quindi immediatamente dopo una catastrofe, un disastro, un’alluvione, un terremoto); sia nella parte successiva, che viene definita di post emergenza e che, normalmente, viene sommata alla comunicazione di crisi. Questo tipo di modello è stato studiato soprattutto dalla cultura statunitense. È un insieme di procedure che vengono adottate per poter rispondere al fabbisogno informativo nella prima fase di emergenza e una serie di strumenti e modelli di comunicazione che vengono adottati nella fase della così detta crisi. La parola crisi, in questo senso, può essere considerata equivalente e sinonimo di cambiamento. Infatti la crisi è un cambiamento repentino, improvviso, che necessita di procedure adeguate per essere affrontata. Esse sono gestite a livello centrale dalla Protezione Civile o i Beni dello Stato.

Perciò, non si deve far vedere la crisi come un qualcosa di irrisolvibile ma come una momentanea rottura dell’equilibrio che va soltanto ripristinato. Bisogna anche essere propensi ad accettare questo momento di crisi.

Questo è un po’ la percezione che si ha dall’esterno. A livello tecnico, il processo di transit management è un processo che si divide in tre fasi principali. Comprende una fase di costruzione di un team di lavoro che affronta la quantità e la qualità dei problemi che sono sottoposti a necessità di informazione. Si fa quindi un’analisi di quello che può essere il contesto nel quale questo tipo di attività di informazione si è andata a sviluppare in uno stato di crisi. Faccio un esempio pratico: nel momento in cui c’è un terremoto devastante che distrugge anche le infrastrutture, saltano tutti i meccanismi di comunicazione ordinaria. Si cerca di capire quante persone sono state colpite o che cosa bisogna fare in quel momento. In questo senso, una serie di organi dello Stato ha delle procedure di comunicazione d’emergenza e tiene conto di diversi fattori: come delimitare le aree o l’area di intervento, comprendere quali sono i soggetti in campo, capire quante e quali sono le fonti di informazione disponibili, capire quali sono i soggetti che possono produrre informazione e anche monitorare quelli che possono essere gli effetti. In questo periodo, purtroppo, un tema molto caldo è quello della disinformazione.

Purtroppo sì. Viene subito in mente l’emergenza sanitaria legata alla diffusione nel nostro Paese del Coronavirus.

Il caso del Corona virus penso sia abbastanza emblematico. Siamo di fronte a un territorio vasto che corrisponde a milioni di abitanti in Cina, Paese non democratico. Discorsi di questo tipo vengono sottoposti al controllo dello Stato e, praticamente, l’unica fonte di informazione ufficiale è quella fornita dallo Stato di riferimento, anche se l’argomento è di carattere internazionale, mondiale. Le procedure a cui noi stiamo assistendo a distanza e adottate, ad esempio, in Cina, sono procedure specifiche per un’emergenza di quella dimensione. C’è un estremo controllo, anche forse esagerato, ma comunque un estremo controllo di tutte le fonti di informazione, perché - su quella quota di intervento - la disinformazione può avere degli effetti collaterali ancora più pericolosi del problema stesso, cioè può indurre le persone a dei comportamenti che possono essere lesivi per la loro stessa salute. La seconda fase è quella della pianificazione della risposta alla crisi. Superata la fase di primo intervento, si passa a un meccanismo organico normalmente organizzato.

A tale proposito, chi è deputato a intervenire in loco o a distanza? E quali sono gli strumenti utilizzati per comunicare?

In Italia, siamo in un Paese dove l’informazione è garantita a livello istituzionale. Il giornalista, tecnicamente, ha piena facoltà di intervenire direttamente sull’area o se è già presente su un’area può svolgere il suo lavoro e raccontare quello che vede. In quanto soggetto qualificato, fornisce delle informazioni adeguate anche a tutti i soggetti che sono in quel momento in campo dal punto di vista del soccorso alla popolazione o anche altri tipi di interventi. Nel caso del terremoto di Amatrice, il Sindaco, giornalista sportivo all’epoca, attraverso un collegamento telefonico ha raccontato in diretta su Radio 2 quello che vedeva. La radio è stato l’elemento più immediato e diretto per stabilire un contatto con una zona colpita da un evento sismico. Quando c’è stato il grande tsunami che ha colpito tutta l’area asiatica, a suo tempo, abbiamo ricevuto le informazioni, le prime immagini a distanza di qualche ora solo perché la devastazione è stata tale…

Si rischia di compromettere le comunicazioni?

Esatto. Molte delle informazioni sono arrivate attraverso le persone colpite che mandavano dei messaggi attraverso i loro telefoni o attraverso reti cellulari ancora attive, ma il quadro generale, in entrambi i casi, si è avuto dopo diverse ore se non addirittura dopo diversi giorni. Quando allo strumento del primo contatto si aggiungono una dei soggetti qualificati (operatori dell’informazione associati a corpi militari o corpi di intervento di Protezione Civile o di soccorso che hanno questa qualifica), si inizia a produrre informazione qualificata che viene inoltrata attraverso i vari canali istituzionali. Da un lato c’è una tutela giornalistica, la libertà di espressione e di informazione, dall’altro ci sono soggetti operatori sul campo che associano, assorbono i vari livelli di informazione e rilasciano questa informazione. In Italia esiste la famosa legge 150, ovvero una legge sulla comunicazione pubblica che determinerebbe una condizione per la quale tutti gli enti locali di qualsiasi genere (comuni, camere di commercio, province, regioni) debbano essere attrezzati per poter fornire informazione istituzionale su qualunque paradigma, compresi quelli in casi di emergenza. In particolare, su questi temi, le regioni sono soggetti responsabili per l’area e quindi diventano i soggetti capofila per quanto riguarda alcune giunzioni di comunicazione di crisi e d’emergenza in caso di grandi calamità. Sono d’esempio le regioni Abruzzo, Lazio, Umbria, Emilia-Romagna che hanno costruito dei dipartimenti funzionali a questa gestione di comunicazione d’emergenza.

Spesso in queste situazioni di emergenza intervengono anche dei volontari. Che ruolo hanno? A volte sono determinanti. Necessitano di autorizzazioni, hanno delle qualità specifiche per cui possono contribuire alla diffusione delle informazioni fra gli enti che agiscono nell’area colpita?

La radio è sempre stata, per motivi diversi, uno strumento di comunicazione applicato a scenari di grande crisi. Prima strumento in ambito militare, è poi diventata strumento di informazione generale e, addirittura, un sistema di radio digitali. Questa evoluzione è avvenuta perché la radio è lo strumento più immediato in assoluto di comunicazione che ci sia, ma soprattutto per la sua capacità di copertura nell’etere o attraverso ponti o satelliti. Permettono oggettivamente di poter operare con una certa flessibilità nelle zone colpite dalle grandi catastrofi. Un operatore radio qualificato passa sempre attraverso una centrale che riceve questa informazione e la ritrasmette. Può essere interessante, oggi, parlare di un doppio livello di tematica: subito dopo il momento di emergenza, fatti aggregatori di informazioni certe o certificate da soggetti qualificati, costruiscono la radio di servizio, cioè la radio sul campo, quella che dà l’informazione alla popolazione locale da un punto locale di trasmissione. Questa è una situazione di radio di emergenza che è presente già in alcuni protocolli internazionali. Dopo questa interazione, anche con persone, con cittadini che vogliono dare informazione e così via, c’è la fase più complessa, quella dell’accompagnamento alla ricostruzione del senso di comunità. Spesso accade attraverso opportune iniziative di costruzione di senso, cioè praticamente di narrazione, di storie, di racconti, di iniziative collegate al racconto della storia di un luogo, del suo patrimonio culturale o interventi di persone che hanno la possibilità o il modo di partecipare alla fase di ricostruzione di una comunità. Cosa che io ho vissuto con Radio L’Aquila Uno. Questa radio, in collaborazione con le unità della Protezione Civile dell’epoca, nel 2009, era stata riattivata all’interno di un container; tutto lo studio era stato trasferito con un’antenna che trasmetteva verso un sistema di ponti che hanno continuato a funzionare, diventando strumento di informazione per tutta la comunità che si trovava nelle tendopoli e che aveva una radio a mano. Questa radio, nel corso degli anni si è trasformata, è passata dalla radio “di Protezione Civile” a una radio organica che ha i suoi studi adesso a L’Aquila. Mantiene lo stile di una radio di comunità, cioè una stanza radio che si occupa dei problemi locali con larghi spazi di intervento su tutti i vari livelli della popolazione. Per dieci anni ha accompagnato in maniera continua e costante, e continua a farlo, la ricostruzione di questa comunità.

Quindi la radio è il punto di partenza per la ripresa di un territorio colpito?

È uno strumento particolarmente flessibile, piuttosto economico, molto veloce. La radio è live per definizione. Permette di aggregare immediatamente l’informazione. È più veloce persino della rete, perché non necessita di ulteriori passaggi tecnologici o fisici. Avendo un microfono, un pubblico di trasmissione e una frequenza, puoi subito trasmettere il tuo messaggio. Ovviamente però bisogna costruire delle figure adatte a questo tipo di attività. L’informazione non può essere affidata al caso, all’emotività, alla stanchezza personale. Quando si lavora in ambiti di emergenza, bisogna sempre tenere conto che di fronte c’è una popolazione che soffre o qualcuno che necessita di informazioni certificate. Una responsabilità di questo tipo di trasmissione di informazione è piuttosto importante. Non si deve assolutamente sottovalutare il modo in cui queste informazioni vengono poi trasmesse.

C’è un’attenzione particolare su come strutturare il messaggio?

Più che strutturare il messaggio, io direi i tempi e i modi. Normalmente la radio è un talk continuo, non è intrattenimento. In un talk ci sono delle informazioni da aggregare. Più le informazioni vogliamo che arrivino a qualcuno in maniera chiara, più le aggreghiamo. Sono tutte informazioni che vanno somministrate in maniera abbreviata e senza troppa enfasi. È un po’ come un’onda verde. Potremmo dire che la trasmissione delle informazioni che noi abbiamo sul sistema autostradale oggi, in Italia, somiglia un po’ alle informazioni di crisi. Quella è una buona modalità per fare pubblica informazione. In questo tipo di informazione non ci sono commenti che possono deviare il senso dell’informazione. Quindi un’informazione deve essere asciutta, chiara, senza ostacoli.

Quindi una comunicazione d’emergenza per essere definita veramente efficace deve essere chiara, concisa e breve?

Chiara, concisa, breve. Direi soprattutto attinente. L’informazione di un’emergenza è sempre un’informazione che scaturisce da una persona. C’è una buona differenza tra quello che un soggetto percepisce singolarmente rispetto a quello che può percepire un’organizzazione più complessa. I Vigili del Fuoco, la Croce Rossa, la Polizia di Stato e associazioni importanti di soccorso hanno una visione più dall’alto perché aggregano informazioni che vengono da più soggetti. Una buona informazione locale tiene conto di tutti e due questi aspetti. In più, la radio funziona bene perché si può spostare da un posto all’altro; si ha la possibilità di fare un racconto su un’area più vasta, questo è il punto. È molto utile perché gli interlocutori si fanno un quadro della situazione più oggettivo favorendo la riduzione della quota di panico.

In che modo è stata gestita la ripresa post terremoto prima in Abruzzo e poi al Centro Italia? Sono stati terremoti di entità diverse.

L’Abruzzo ha avuto una fortissima presenza di mezzi di telecomunicazione, soprattutto televisivi e anche radio in parte supportati da Internet che iniziava ad esistere a livello social. Si è creato una specie di racconto parallelo sui social media che andava di pari passo. Nel tempo, questo tipo di racconto è rimasto presente a livello televisivo spostandosi pian piano su Internet, occupando occasionalmente le testate giornalistiche italiane e quelle internazionali. Sul terremoto dell’Emilia-Romagna le cose sono andate diversamente. C’è stata una forte presenza dei social network all’inizio: Twitter entrava e diventava uno strumento di comunicazione d’emergenza prodotto direttamente dalla popolazione. Anche le radio, in Emilia, hanno avuto una funzione importante rispetto alla popolazione perché la tipologia di terremoto non solo aveva colpito le grandi città ma anche zone di secondo livello, di provincia o addirittura aree di campagna e zone industriali. Quindi è stato un racconto che si è sviluppato molto sulla stampa nazionale, sui media generalisti ed è stato accompagnato dai sistemi locali anche autoprodotti, come le organizzazioni di volontariato con le proprie reti. Al Centro Italia c’è stata una involuzione del sistema. È accaduto in un periodo del tutto imprevedibile, è stato un terremoto multiplo, c’è stato in più fasi ed è stato un terremoto in cui le funzioni delle regioni, non hanno funzionato benissimo. Di conseguenza c’è stata una certa confusione. Le testate televisive hanno giocato un grande ruolo, perché la vicinanza a Roma ha generato uno spostamento immediato delle troupe televisive; Internet è stato utilizzato in maniera massiccia. Ancora oggi ci troviamo di fronte alla scia del terremoto del Centro Italia che, seppur accaduto qualche anno fa, ancora lascia le sue tracce. Organizzazioni di volontariato e associazioni stanno continuando a produrre informazione per tenere ancora attivo l’interesse su queste aree. La comunità può essere uno strumento che sostiene se stessa con operatori qualificati nel tempo o durante una grande catastrofe. Questo lo abbiamo rivelato in tutti e tre i terremoti che abbiamo studiato, dove la comunicazione era carente. L’auspicio è che per ogni comune possano esserci delle forze attive per poter continuare ad emettere questo segnale e a tenere vivo il senso delle comunità. Altrimenti i segnali si spengono e le aree vengono abbandonate diventando dei musei a cielo aperto. L’Aquila è stata di insegnamento. Una consapevolezza e una grande capacità di resilienza hanno permesso l’attivazione dei processi di ricostruzione in un tempo relativamente breve. Ciò, purtroppo, non è accaduto per il Centro Italia.

Ha citato Facebook. Trovandomi nella zona interessata dal sisma, nel 2016 ho ricevuto una notifica da Facebook che chiedeva di confermare se stavo bene. I social possono davvero aiutare a velocizzare il lavoro dei soccorsi e il flusso corretto delle notizie?

Questa applicazione di Facebook relativa allo stato delle persone che si trovano in quell’area è utile perché attraverso le modalità di ricezione si può comprendere statisticamente quante persone sono su quell’area e soprattutto quante persone riescono a comunicare con mezzi propri, se le reti sono ancora attive oggettivamente parlando dell’algoritmo. Purtroppo Facebook, per quanto molto valido, è uno strumento basato su una comunicazione di tipo emotivo, non è basato su un’informazione di tipo razionale come può essere Twitter. Si può dire che nel momento di una situazione di soccorso, la cosa migliore è quella di comunicare in maniera breve, concisa e chiara dando alcuni parametri di riferimento, ma lanciare un post o un tweet nella rete è un po’ come lanciare una bottiglia nell’oceano: non è detto che quel messaggio venga letto da unità di soccorso o da una rete attiva che legge dall’altro lato. Dobbiamo sempre comprendere come il flusso di comunicazione si sviluppa. Le reti ordinarie dello Stato, che sono poi i Vigili del Fuoco con la relativa rete sul campo, l’Esercito e poi successivamente la Protezione Civile, si muovono autonomamente perché devono lavorare su una rete certa, su informazioni certificate che vengono verificate sul campo dagli operatori di settore. Può essere molto utile utilizzare i social network in una seconda fase, quando c’è una tematica di racconto della post emergenza e quando può essere necessario raggruppare persone, costruire gruppi, club, creare dei piccoli luoghi tematici dove pian piano ricostruire la propria identità, ricostruire non solo il territorio, anche magari dei luoghi di scambio di servizi ordinari o costruire realtà virtuali della comunità. Come strumento di soccorso, Facebook, preferirei non consigliarlo. Può essere molto pericoloso.

Durante e dopo il terremoto ho notato reazioni differenti: c’è chi è entrato nel panico, chi è rimasto impassibile e chi ha scaricato delle applicazioni per “monitorare” le scosse. Nelle scuole è cresciuta l’attenzione intorno al tema della sicurezza. Come si può garantire una maggiore consapevolezza e una migliore prevenzione delle aree indicativamente sensibili rispetto all’evidente crisi climatica?

La Protezione Civile nazionale, con il programma “Io non rischio”, ha costruito dei protocolli molto adatti alla formazione, soprattutto nelle scuole, degli strumenti di base per poter in qualche modo occuparsi del tema della prevenzione. Prevenzione e soprattutto consapevolezza di alcuni aspetti fondamentali. L’informazione è fondamentale sui piani di Protezione Civile e su quello che le amministrazioni locali devono fare per legge. Si devono informare costantemente i cittadini delle attività da svolgere in caso di emergenza per la salvaguardia della vita propria e altrui, il che significa identificare chiaramente con delle segnaletiche locali i punti dove ci si può rifugiare. Inoltre c’è da fare un ragionamento sui mezzi di informazione. Purtroppo le fake news o i produttori di informazioni inesatte e esagerate sono ancora dominanti sulla rete. Il fatto di informarsi soltanto attraverso i social network su questi temi fa incappare l’utente in persone che diffondono panico, paura e non danno informazioni certe e utili per la popolazione. In questo senso, Twitter è molto interessante perché ha ormai tantissime fonti di informazione certificata e in tempo reale che rilasciano dati certi. NCV, Polizia di Stato e tutti i vari enti e istituzioni, i Vigili del Fuoco, la Protezione Civile, si occupano di fornire informazioni chiare e istantanee che possono essere immediatamente lette o scaricate sul telefono o viste su un computer. Queste sono, secondo me, le fonti più immediate e utili in questo momento. Parallelamente la radio è un ottimo strumento di consapevolezza perché, nel tempo, stratifica la coscienza di una comunità rispetto a problemi comuni, rispetto a situazioni e soluzioni che vengono via via costruite e trovate, rispetto a modifiche anche dello stile di vita di una comunità e delle esigenze basiche delle persone. La scuola, sicuramente, ricopre un ruolo importante come tessuto di comunità come anche le associazioni culturali e di volontariato che poi, via via, diffondono informazioni sul territorio. In sostanza la risposta organica di soggetti, che dal momento di emergenza acuta sino a tutta la fase successiva intervengono sul territorio, incide sul processo di consapevolezza e di così detta riduzione del rischio, cioè della possibilità di diffusione di informazioni adeguate sui comportamenti e sugli strumenti da utilizzare in caso d’emergenza.