Negli anni ’90 le discoteche italiane erano veri templi del divertimento: grandi strutture con impianti luci e audio imponenti, scenografie spettacolari, DJ-star capaci di dettare mode musicali. Locali come il Cocoricò di Riccione, l’Ultimo Impero vicino Torino o l’Echoes di Rimini erano mete obbligate per migliaia di giovani, spesso con capienze oltre le 5.000 persone. In quel periodo l’Italia contava oltre 4.000-7.000 locali da ballo: un’economia florida, capace di generare indotto turistico e occupazione. In molte città, soprattutto lungo la costa adriatica e nel Nord Italia, le discoteche non erano solo luoghi di svago, ma veri motori sociali e culturali. Dettavano tendenze, lanciavano mode, influenzavano linguaggi e comportamenti. Oggi la situazione è molto diversa: come ha raccontato il programma Far West dello scorso 9 maggio, le associazioni di categoria, negli ultimi 14 anni hanno chiuso più di 2.600 discoteche. Restano circa 2.000 attività, spesso ridimensionate. I motivi sono molteplici. Sul piano culturale, i giovani prediligono festival, party open-air, club più piccoli o esperienze alternative. La crisi economica riduce la disponibilità a pagare 30-50 euro a serata, mentre i gestori devono affrontare costi crescenti di energia, personale e tasse. La pandemia ha aggravato tutto, fermando stagioni intere e modificando abitudini sociali.
Oggi molte serate si organizzano su scala più ridotta, con prenotazioni digitali, eventi “pop-up” e promozione via social. La relazione tra pubblico e musica è cambiata: meno rituale, più liquida. Un altro fattore è la sicurezza: tragedie come quella di Corinaldo (2018) hanno inasprito i controlli e aumentato responsabilità e costi di gestione. Molti locali, costruiti decenni fa in zone periferiche, soffrono anche di problemi urbanistici e di accessibilità. In molti casi, le strutture non rispondono più alle normative attuali, rendendo onerose le ristrutturazioni. Intanto, marchi storici sono spariti o riconvertiti: il Cocoricò è stato dichiarato fallito nel 2019, il Paradiso di Rimini è stato venduto all’asta, il Meccanò di Firenze demolito dopo un incendio. Altri si sono reinventati, trasformandosi in club, spazi per eventi privati o sale concerti.
L’economia della notte non è scomparsa, ma ha cambiato volto: più diffusa, frammentata, competitiva, con format nuovi e digitali. Le grandi discoteche hanno perso centralità, lasciando spazio a contesti più flessibili, capaci di adattarsi a linguaggi contemporanei. L’intrattenimento notturno oggi si gioca spesso su contenuti esperienziali: silent disco, eventi immersivi, set in streaming, serate ibride tra musica, performance e arte visiva. Anche il DJ è cambiato: meno divo, più curatore. Le così dette cattedrali nel deserto non sono però solo sfocati ricordi o foto nelle mani di chi le ha vissute. Sono entrate anche nel mirino di un fenomeno curioso: l’urbexer, dall’inglese urban exploration, ovvero l’esplorazione di luoghi abbandonati. Le grandi discoteche chiuse negli ultimi vent’anni — con i loro saloni deserti, le piste da ballo coperte di polvere, le statue classicheggianti e i lampadari spenti — sono diventate mete molto ricercate. Alcuni urbexer ricostruiscono la storia di questi spazi, pubblicando immagini, video e racconti che restituiscono vita a ciò che è stato.
Per questi giovani l’attrazione non è il ballo ma il fascino decadente: entrare in spazi che un tempo ospitavano migliaia di persone e oggi risuonano solo di silenzio. Queste spedizioni, pur suggestive, avvengono quasi sempre in condizioni di rischio (strutture instabili, vetri rotti, accessi non autorizzati). Resta perciò un fenomeno di nicchia affamato di documentazione, arte fotografica e adrenalina. Ma testimonia, in fondo, che quel passato non è stato dimenticato: sopravvive sotto altre forme, in altre narrazioni. “Non è scomparsa una cultura, si è solo trasformata per suonare un linguaggio nuovo”.