Disuguglianza, usiamo i nostri anticorpi
Ne parliamo con Fabrizio Barca del Forum Disuguaglianze e Diversità
Eva Barca | 11 novembre 2020

Fabrizio Barca è uno dei più grandi statisti ed economisti  del nostro Paese, impegnato da anni nella ricerca dell’uguaglianza sostanziale e non solo formale. Attualmente ricopre l’incarico di coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, con cui porta avanti battaglie concrete, frutto di idee chiare e raggiungibili che esprime attraverso un linguaggio diretto e preciso. Definisce il ForumDeD come “un’alleanza fra i saperi della ricerca e delle organizzazioni di cittadinanza attiva, con lo scopo comune di promuovere azioni pubbliche e collettive per la giustizia sociale” ed è convinto – ora più che mai – che sia indispensabile non lasciare nessuno indietro.

 

L’uguaglianza, a livello teorico, è uno dei capisaldi del Paese. Nei fatti e nella percezione comune però non è così. Quali sono le realtà in cui la disuguaglianza si avverte di più e quali sono i fattori responsabili?

La parola disuguaglianza è venuta a galla relativamente da poco e ormai non si può fare a meno di parlarne, anche se spesso non si è realmente intenzionati ad affrontare concretamente l’argomento. Le manifestazioni delle disuguaglianze non sono solo quelle che vengono in mente su due piedi e quindi quelle di reddito e di ricchezza. Quelle che hanno simile se non più grave peso sono le disparità di accesso ai servizi fondamentali come salute, scuola, mobilità e comunicazione, nonché alla qualità di questi ultimi. Le disuguaglianze presentano tutte una forte caratterizzazione territoriale: si concentrano lungo le coste abbandonate, nelle periferie e nelle aree interne lontane dai centri urbani e i fattori principali non sono, come si tenderebbe a credere, globalizzazione o tecnologia in sé, ma sono le scelte politiche sistematicamente disattente anche a quelle trasformazioni e al loro effetto sulla giustizia. Queste hanno di fatto ridotto il livello della voce dei cittadini, a cui sono stati sistematicamente ristretti gli spazi di voce e confronto, lasciando loro libertà di voto e di andar via, ma non di avere un peso cruciale nelle decisioni.

Com’è cambiata la situazione con il Coronavirus?

La pandemia di Covid-19 ha avuto due effetti. Il primo è stato l’accentuazione di tutte le disuguaglianze già esistenti: i lavoratori precari sono stati i primi a perdere il lavoro e a non poter beneficiare dei sussidi, le zone non coperte da connessione Internet sono rimaste completamente isolate e quelle con un sistema sanitario inefficiente sono state destinate al collasso. Dall’altra parte, però, è emersa la reazione proprio delle organizzazioni dei cittadini attivi e delle modalità mutualistiche di organizzazione della vita, di cooperazione tra le persone, che sono diventate evidenti e hanno avuto un ruolo decisivo, anche – per esempio - tra le scuole e le famiglie, il cui rapporto ultimamente si era indebolito. Il primo elemento manifesta l’urgenza di provvedere e di cambiare politiche; mentre il secondo mostra la presenza nella società di anticorpi già esistenti che devono solo essere attivati.

Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro?

Per il futuro prevediamo tre scenari, che dipendono da tutti noi e non solo dall’azione dello Stato. Un primo scenario è di stallo, con al massimo un ritorno alla situazione precedente, ovviamente non positiva ma più digeribile in seguito a una tale crisi. Un secondo è la maturazione di ulteriore rabbia sociale e risentimento, che non tenderanno a un conflitto costruttivo ma che muteranno in odio nei confronti delle classi sociali più disagiate. Il terzo è la possibile ricostruzione su quelli che prima ho chiamato anticorpi sociali, con battaglie forti e con precisi obiettivi, ad esempio contro la povertà educativa o contro l’emergenza abitativa. Le misure però devono includere la partecipazione della comunità in toto e di tutti gli enti necessari, così come devono essere costruite in proporzione ai contesti e non per forme standardizzate. È per questo che secondo noi serve una “Politica rivolta ai luoghi”, con forti indirizzi verso obiettivi comuni ma con una declinazione a misura dei territori.

In base alla sua esperienza, quale ritiene che sia il comportamento della generazione degli adolescenti nei confronti del tema dell’uguaglianza? C’è scetticismo o fiducia?

Secondo me c’è una doppia attitudine in ciascun giovane: così come c’è un’enorme voglia di credere, quasi un appiglio necessario per guardare avanti, c’è anche una gran paura di credere per non restar delusi. Quest’ultima origina poi quel cinismo su cui la generazione dei governanti costruisce gli alibi per non investire sui giovani. Da un lato lo Stato si rifiuta di trasferire responsabilità alle nuove generazioni, dall’altro i giovani rinunciano spesso a priori a protestare e a combattere per i propri diritti, perdendo in questo modo tutta la propria libertà e prospettiva di futuro.  Ma le cose possono cambiare. E noi del ForumDD lavoriamo a questo.

Un futuro più giusto è il titolo del libro curato da lei e da Patrizia Luongo per Il Mulino. Qual è l’agenda che proponete per fare in modo che nessuno resti indietro?

Innanzitutto ci tengo a precisare che siamo gli amanuensi di un team di circa cento persone, ossia tutto il ForumDD. Crediamo che per cambiare l’andamento siano necessarie tre cose: un’analisi delle cause delle problematiche; sentimenti ed emozioni come giustizia sociale, affetto familiare e bene comune; e infine proposte concrete che hanno come fondamento due importanti pilastri: “Liberare e accedere ai saperi”, che riteniamo essere l’ingrediente fondamentale del potere, e, appunto, “Trasferire i poteri”, che devono essere legittimati e riconosciuti ma successivamente trasferiti ai giovani, con l’eredità universale e la sconfitta della povertà educativa, così come alle donne e al lavoro.