“Una grande comunità hippie demilitarizzata” queste le sembianze che, secondo la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, assumerebbe l’Europa in una prospettiva di rottura dei rapporti europei con gli USA. La Presidente esprime tutto il suo disappunto verso coloro che auspicano una riduzione degli investimenti per la sicurezza dell’Europa, un’Europa che forse “spera nella buona fede delle potenze straniere”. Un discorso perfettamente in linea con le opinioni che si stanno delineando in Europa e con la nuova politica, chiamata “ReArm Europe”, proposta dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.
Secondo l’EDA, nel 2022 gli Stati europei hanno speso complessivamente 240 miliardi di euro in difesa e si parla ora di raddoppiare o triplicare questa cifra, a scapito naturalmente di altri settori, come la sanità, l’istruzione, il welfare.
Ma è davvero necessaria una corsa alle armi così massiccia?
Per rispondere a questa domanda può essere utile dare uno sguardo al contesto mondiale: attualmente nel mondo sono in corso 56 guerre, che coinvolgono direttamente o meno circa 92 paesi, il numero più alto registrato dalla Seconda Guerra Mondiale, secondo l’Institute for Economics & Peace (IEP). È importante sottolineare che la parola “guerra” si presta a diverse interpretazioni: dal conflitto geopolitico aperto e dichiarato fra due o più Stati, come nel caso di Russia e Ucraina, allo scontro fra gruppi etnici, sociali o religiosi condotto con l’impiego di mezzi militari, come avviene in diverse parti del mondo. Ma in ognuno dei casi è tragedia, ogni guerra porta con sé morte, sofferenze e dolore, non c’è scampo.
Nel 2022 l’UNHCR ha stimato essere 100 milioni il numero di rifugiati costretti a scappare da conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani e persecuzioni. Nel 2023 un rapporto della Caritas ha contato 170.700 morti a causa di conflitti. Una situazione di certo poco confortante che può portarci ad una riflessione importante: la pace in cui tanto crediamo è davvero possibile?
È significativo pensare che non ci sia mai stato un periodo nella storia dell'umanità in cui tutte le regioni del mondo fossero in pace e prive di conflitti. La nostra è una storia di guerra sin dall’antichità, con scontri tra imperi e civiltà, una storia che conserva la sua natura violenta ancora oggi e le ultime vicende di guerra ne sono una prova concreta. Ma questo non deve essere un alibi: il progresso deve essere progresso innanzitutto etico e morale ed è del tutto logico pensare che le guerre sono un inutile dispendio umano ed economico, che non porta a nulla se non a passi indietro. Non possiamo vivere serenamente le nostre vite sapendo che persone come noi muoiono ogni giorno sotto bombe e macerie, non possiamo più consolarci pensando alla pace come a qualcosa di irraggiungibile e utopico. La pace siamo noi, ogni giorno con le nostre vite e scelte.
Forse sarebbe necessario “educarci alla pace”, basti pensare che spesso la radicazione dei conflitti nelle menti delle persone è molto più dannosa delle cause materiali. È dunque da qui che dobbiamo partire.
Ma come iniziare? Esistono programmi come il "Non-Violence Project" o il "United Nations Global Education First Initiative", che partono dai giovani per la costruzione di realtà dove il dialogo e il rispetto siano la chiave. Si tratta di semplici idee che, tuttavia, costituiscono un punto di partenza fondamentale per iniziative più concrete. Infatti un negoziato di pace non rappresenta solo la fine di un conflitto politico, bensì una decisione razionale per evitare un ulteriore deterioramento delle condizioni economiche, sociali e politiche.
Ma per parlare di pace, è necessario che gli accordi siano duraturi ed è per questo che alla fine di un conflitto, è fondamentale applicare politiche di riconciliazione in modo tale da fermare il ciclo della violenza. Ma soprattutto, invece che di riarmo, si cominci a parlare seriamente di disarmo globale. Dunque possiamo vedere la pace come una soluzione logica, capace di porre fine ai danni irreparabili della guerra. Insomma, non serve “credere” nella pace, poiché le soluzioni esistono e sono concrete, razionali, reali. Alla fine, forse, dovremmo fare tutti come suggeriva John Lennon nel ‘69: “Give peace a chance”.