Old school: la voce del quartiere
Nell’epoca del vinile e delle piazze, il rap nasce come voce collettiva. I beat sporchi, costruiti su campionatori e scratch, danno ritmo a un linguaggio che parla di strada, appartenenza, riscatto. L’MC è portavoce di un gruppo, di un quartiere, di bisogni reali. In questa prima stagione, la musica è gesto politico: la cultura hiphop in senso lato si configura come controcultura della resistenza e subcultura delle periferie, quasi esclusivamente black. In questo periodo, il valore del rap sta nella comunità che genera, più che nell’individuo che la rappresenta.
L’egocentrismo del nuovo millennio
Con i CD e i club, il rap attraversa gli anni Duemila e diventa una forma d’arte professionale. Il beat si fa digitale, la metrica più precisa, la voce più pulita. Gli artisti si raccontano, mettono in scena le proprie biografie, trasformano la credibilità di strada in introspezione. La realness non è più un fatto di quartiere ma di coerenza: dire la verità su di sé. A questo punto il rap perde parte del suo senso comunitario per diventare racconto individuale, quasi confessione. La complessità delle rime riflette una complessità interiore, mentre i valori si spostano dal gruppo alla persona, dall’azione collettiva al riconoscimento sociale. È il passaggio da una cultura condivisa a una cultura dell’autore.
La trap: autotune, performance e TikTok
Dagli anni dieci la scena viene rivoluzionata dalla trap: dall’autotune alla rarefazione delle rime, diventa il genere di una generazione a cui basta un computer per conquistare le classifiche. La parola d’ordine è performance: il testo perde parte del suo peso narrativo e acquista potenza visiva, il senso si condensa nell’immagine. Ma non si tratta solo di mettersi in mostra: anche le ultime generazioni hanno qualcosa da dire e trovano nella musica il loro mezzo di espressione. E, paradossalmente, si torna a parlare di piazza, di quartiere e di questioni razziali, ma in modo completamente diverso da prima.
