Gigi Buffon e il senso di un addio
Il fuoriclasse dice addio alla Juve dopo diciassette anni
Roberto Bertoni | 19 maggio 2018

Non avrei mai voluto assistere a una partita del genere. Speravo che un giorno così non arrivasse mai. Oltre seimila giorni, praticamente una generazione, praticamente una vita, e il pianto che sorge spontaneo al cospetto di un dolore impossibile da descrivere a parole. 

Un addio sportivo, certo, ma pur sempre un addio e il pensiero struggente che non vedremo più tra i pali quel campione durato una generazione, quel fuoriclasse che mi ha accompagnato dal primo anno delle scuole medie all'età adulta, quel gigante senza il quale non avremmo mai trionfato in Germania a livello di Nazionale, quel mito che accettò di scendere in Serie B da campione del mondo in carica, contribuendo alla rinascita di una squadra cui doveva molto ma alla quale ha dato tutto. 

Celebriamo l'uomo ben prima del calciatore, perché questo è stato Buffon nell'arco di una carriera esemplare. 

Arrivò alla Juve nell'estate del 2001: pagavamo ancora in lire, Wikipedia era agli albori, le Torri Gemelle erano ancora al loro posto, in Italia era appena tornato al governo Berlusconi e non si era ancora consumata la mattanza del G8 di Genova, Facebook e Twitter non erano forse neanche nella mente dei loro inventori, l'Avvocato e il Dottor Umberto facevano ancora capolino allo stadio, i bianconeri giocavano al Delle Alpi, a comandare era la Triade e la mia generazione, che ormai va per i trenta, era poco più che bambina. Sembra passato un secolo.

È cambiato tutto: governi, prospettive internazionali, le tecnologie e il mondo nel suo insieme ma Gigi è rimasto lì, con la sua classe cristallina, il suo talento smisurato, la sua simpatia. È stato, al pari di TottiMaldiniDel PieroZanetti e poche altre bandiere, un punto di riferimento, uno degli ultimi rimasti, un'ancora alla quale aggrapparsi nei momenti difficili, in una delle stagioni più difficili di sempre, ora che tutti i punti di riferimento sono venuti meno e che persino la Nazionale ha tradito, evidenziando, se ancora ce ne fosse bisogno, la decadenza di un Paese il cui declino è tangibile nella vita quotidiana di ciascuno di noi. 

Anche per questo lo Stadium oggi pomeriggio piangeva come neanche per Del Piero: perché tutti sappiamo di non avere altro, tanto meno in ambito politico, pertanto non c'è dubbio che la propria squadra del cuore e i suoi campioni più rappresentativi creino quel senso d'appartenenza che un tempo erano in grado di creare soprattutto partiti e sindacati. 

Diciassette anni, oltre seimila giorni dicevamo, cui si sommano gli anni felici al Parma, nell'epoca aurea della provincia italiana, quando Parma e Fiorentina potevano permettersi di annoverare nelle rispettive rose Buffon e Toldo, ossia i portieri dell'Italia, cui si sommava il discreto milanista Abbiati.

Veder giocare Buffon significava avere almeno una certezza, e lo stesso devono aver pensato per oltre vent'anni tutti i suoi compagni di squadra: l'ultimo baluardo, la garanzia assoluta, l'argine in grado di fermare qualsiasi attacco, salvo doversi purtroppo arrendere al cospetto di mostri come Messi e Cristiano Ronaldo nelle due finali di Champions perse negli ultimi anni dai bianconeri. 

Un simbolo di lealtà e generosità, un personaggio umile e genuino, come testimonia anche lo sfogo, umano e comprensibile, al termine della sfida contro il Real Madrid, quando inveì contro un arbitro che passerà alla storia, quasi sicuramente, solo per aver espulso Buffon e per aver concesso un discutibile rigore ai madrileni, ossia per luce riflessa e per un errore di valutazione. 

Gigi, al contrario, non ha bisogno di aggettivi: basta citarne il nome e, in ogni angolo del mondo, tutti sanno che vuol dire calcio, vittoria ma, soprattutto, che si sta parlando di una persona perbene, di un uomo giusto e verso cui è impossibile non provare un sentimento d'affetto.

Gigi saluta, con la Juve scudettata per la settima volta consecutiva e il Parma che, dopo tre anni di calvario, torna meritatamente in Serie A. Ed ecco che la gioia di un singolo diventa quella di una comunità in cammino, di chi le ha dato tutto e ha ricevuto in cambio il sorriso speciale di un bambino di quarant'anni. In questo scambio di doni, in questo conquistare la ribalta senza mai cercarla, risiede la sua grandezza. 

 

P.S. Mercoledì sera, a Lione, l'Atlantico Madrid, trascinato da un superlativo Griezmann, autore di una doppietta (il terzo gol è stato di Gabi), si è imposto per 3 a 0 sul Marsiglia di Rudi Garcia. Se il Real dovesse battere il Liverpool sabato prossimo nella finale di Champions a Kiev, Madrid si confermerebbe a pieno titolo, e con pieno merito, la capitale del calcio mondiale.