Mafia, superare "il gradino" dell'omertà e delle ombre
Ai microfoni dei giovani reporter di Zai.net, Vincenzo Agostino parla della dolorosa vicenda dell'omicidio di suo figlio Antonino, ancora in parte avvolta dal mistero: chi sa non ha ancora parlato
Sofia Donzelli | 18 ottobre 2021

Vincenzo Agostino è un altro dei padri che lotta per fare giustizia al figlio ucciso dalla mafia. Una lotta lunga trentadue anni per mettere alla luce una vicenda ancora avvolta da troppe ombre, che includono anche le stesse forze dell'ordine per cui Antonino Agostino lavorava. Nonostante il dolore, l'uomo ha detto di confidare che le nuove generazioni non permetteranno all'omertà e alla mafia di farla da padrone, e che i tempi stanno cambiando

Ci dica: chi era Antonino? 

È nato nel 1961, dopo due anni di matrimonio. Nino era un ragazzino ribelle, molto vivace. Quando da piccolo non riusciva in qualcosa non tornava mai sconfitto: si impegnava fino a quando non otteneva il risultato sperato. Dopo le medie si iscrisse all'istituto di elettrotecnica al Vittorio Emanuele e conseguì il diploma. Ai tempi vi era la coscrizione obbligatoria, così divenne un militare ausiliario. Noi non avevamo mai avuto problemi, la nostra fedina penale era pulita. Trascorse dodici mesi di corso alla caserma Lungaro, distaccata a Vibo Valentia. Una vota tornato decise di diventare un poliziotto. Io sono sempre stato un semplice operaio, è inspiegabile l'emozione che si ha quando entra una divisa in casa. Dopo il corso fece il giuramento: in trenta arrivammo a Caserta per assistere. Giurò fedeltà per la nostra Costituzione, lui mantenne il giuramento... Ce ne sono tante di mele marce all'interno delle istituzioni, questi individui fanno male. 

Cosa avvenne prima dell'omicidio di suo figlio?

In commissariato Nino conobbe una mela marcia. Era un comandante che era solito andare alla Vucciria: tutti i venditori ambulanti lavoravano in nero e lui ne approfittava per ricattarli, facendo la spesa senza pagare. Quando le pattuglie passavano di lì, i venditori gli urlavano contro, considerando tutti i poliziotti delinquenti. Così Nino non sopportava più di vivere in questo ambiente, sapendo di non poter fare nulla contro questo superiore. Gli consigliai di chiedere il trasferimento e così fece: lo spostarono al commissariato di San Lorenzo. Di lì a poco conobbe Ida e si fidanzarono e nel 1989 si sposarono. Nello stesso anno ebbe luogo il fallito attentato a Falcone: mio figlio Nino era presente. Un giorno mio figlio mi disse che non avrebbe potuto più utilizzare la sua macchina, senza darmi nessuna spiegazione. Un giorno, mentre Antonino e la moglie erano in viaggio di nozze, sentii aprire il cancello e subito andai a controllare chi fosse. Senza salutare, un uomo - che in seguito ribattezzammo "Faccia da Mostro"mi chiese dove fosse Nino e io risposi che non c'era. Si allontanarono dopo aver detto di essere colleghi. Mi dimenticai di raccontare a mio figlio di quell'incontro. Tornato dal viaggio, quando andai a prenderlo all'aeroporto, mi chiese se qualcuno mi avesse seguito. Si mise alla guida e per tutto il tragitto continuò a controllare che nessuno fosse dietro di noi.

Cosa accadde quel giorno?

Quella mattina Nino mi mise una mano sulla spalla e mentre guardava l'alba mi disse: "Si chiamerà come te". Tornò da lavoro alle diciotto e trenta circa, per poi recarsi con la moglie a casa della famiglia di lei per mostrare le foto del matrimonio. In quei giorni un suo amico di nome Paolotto era stato nostro ospite, ma quella sera se ne andò bruscamente, andando a Trapani senza dare alcuna spiegazione. Dopo qualche ora sentii un botto: pensai si trattasse dei fuochi d'artificio di Ferragosto. Dopo il secondo e il terzo mi preoccupai. Ida urlò: "Stanno ammazzando mio maritoLo so chi siete" mentre questi gli spararono dritto al culore. Mia moglie trovò le forze di lasciare il corpo di nostro figlio per portare Ida in ospedale. Io fui sedato. Un poliziotto mi consegnò il suo portafogli, ma in preda all'ira lo tirai con tutta la mia forza contro il muro: questo è il rimpianto più grande di tutta la mia vita. Trovarono infatti un biglietto, con scritto "Se mi succede qualcosa cercate a casa mia". Tutt'oggi non so cosa abbiano trovato. Un certo Arnaldo La Barbera mi interrogò, come se fossi stato io ad uccidere mio figlio. Alle prime luci del giorno dopo erano presenti due persone: il capo della polizia Vincenzo Parisi e il ministro dell'interno Gava. Cosa ci facevano persone di questo spessore al funerale di un semplice poliziotto?

Perché il processo è durato trentadue anni e non si è ancora concluso?

Ci sono voluti ventidue anni per dare un nome a Faccia da Mostro. Mi sono rivolto tante volte ad un uomo che in seguito è diventato Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia. Mi chiese di andare a Roma, ma poi non fui accolto al Ministero. Mi condussero in una stanza e aspettai per un'ora. Nell'ufficio del procuratore risposi ad alcune domande e mi fecero vedere foto di diversi uomini per identificare Faccia da Mostro. Lo riconobbi, era l'ultimo: Giovanni Aiello. L'altro, Nino Madonia, lo riconobbi al carcere dei Cavallacci di Termini Imerese. Per entrare mi travestii da monaco: lo identificai da uno spioncino, ma non ero sicuro. Il riconoscimento non fu quindi validato. Un giudice decise di tenere il caso aperto per altri sei mesi, periodo nel quale mi rivolsi a un altro magistrato, che mi intimò: "Ma lo vuoi capire o no che non posso salire più di questo gradino?". Mi fecero rifare il riconoscimento: stavolta Giovanni Aiello aveva cambiato colore dei capelli. Rimase libero "per inerzia": tutt'oggi non capisco cosa intendano con questa parola. Dopo trentadue anni, Nino Madonia venne condannato all'ergastolo. Ho un grande dolore nel mio cuore, aver scritto nella lapide di mia moglie "Qui giace Schiera Augusta, mamma dell'agente Agostino, in attesa di verità e giustizia oltre la morte". Intanto abbiamo scoperto solo dopo trentadue anni che mio figlio lavorava con Falcone: nessuno ce lo ha mai detto.

Ci racconti qualcosa del rapporto tra Nino, Falcone e Borsellino.

Conobbero Nino solo perchè il commissario dello Zen, Antenoro, volle parlare in segreto con Falcone. Prese con se due poliziotti, tra cui mio figlio, e li presentarono a Falcone. Il giudice prese a cuore Antonino; iniziarono a lavorare insieme. Sia lui che Borsellino presero parte ai funerali. Falcone disse che a "quelle due bare" (quella dell'agente Agostino e della moglie, morta in ospedale) doveva la vita. La squadra mobile di Palermo, guidata da Arnaldo La Barbera, aveva smentito la presenza di Falcone e Borsellino ai funerali, ma io avevo filmato tutto.