Blue Whale, prima condanna ad una giovane milanese
La condanna di una venticinquenne milanese per aver convinto una dodicenne a tagliarsi nel 2017 riaccende l'attenzione su una storia dai confini incerti, nella quale i media hanno giocato un ruolo centrale
Stefano Stoppa | 20 maggio 2021

È  arrivata la prima condanna per il fenomeno Blue Whale, la presunta sfida online di cui si parlò diffusamente nel 2017, e che prevedeva, secondo i racconti, una serie di prove a cui gli adolescenti coinvolti, adescati online, dovevano sottoporsi fino ad arrivare al suicidio. Il tribunale di Milano ha infatti condannato a un anno e mezzo con pena sospesa una giovane, che oggi ha 25 anni, per avere contattato una dodicenne siciliana nel 2017, convincendola a farsi tagli sulle braccia e inviare foto per documentare i gesti. Una giornalista fingendosi minorenne riuscì a scoprire e denunciare la responsabile alla Polizia Postale. La giovane milanese aveva preso contatti con la vittima attraverso i social network, anche con la complicità di un ragazzo di origini russe, e si era spacciata per un “curatore”, cioè il personaggio che assegna le prove e le punizioni per i ragazzi coinvolti. La vicenda nota come Blue Whale è un fenomeno complesso, in cui è difficile ricostruire la verità, e nella quale i media, come ricostruito già nel 2017 da Valigia Blu, hanno giocato un ruolo fondamentale.

La Blue Whale

Nel 2015 la sedicenne russa Rina Palenkova si tolse la vita dopo aver pubblicato una foto di addio sui social. La ragazza divenne presto un’icona di un fenomeno, detto “f57”, che sembrava raccogliere utenti con pensieri suicidi attorno a gruppi online sul social network Vkontakte.

A maggio 2016 la testata russa Novaya Gazeta pubblicò sul suo sito web un articolo che raccontava di gruppi VK nei quali diversi adolescenti erano istigati al suicidio tramite istruzioni e prove da superare. I gruppi, gestiti da persone adulte, sarebbero stati all’origine di molti suicidi fra il 2015 e il 2016, e si riteneva che circa 80 di questi fossero da ricondurre proprio a una sfida conosciuta come “Blue Whale”. A partire dalle testimonianze di alcune madri di adolescenti che si erano tolti la vita, erano qui citati elementi che poi sarebbero entrati nella narrazione del fenomeno: svegliarsi la notte alle 4:20, disegnare balene e farfalle, frequentare gruppi online, tagliarsi… L’articolo generò polemiche, e seguirono altre inchieste su diversi giornali, e un’indagine della polizia. Radio Free Europe, un’organizzazione americana, condusse delle ricerche e arrivò a sostenere di non riuscire a collegare nessuno dei suicidi citati alla cosiddetta “Blue Whale”. Bisogna considerare infatti che in Russia il tasso di suicidi fra gli adolescenti è tre volte superiore alla media mondiale, ed è un problema noto da tempo. Allo stesso modo, le ragioni dietro i gestori dei gruppi non erano sempre chiare. Il 18 novembre 2016 venne arrestato con l'accusa di incitamento al suicidio Philip Budeikin, un ventunenne russo amministratore di alcuni di questi gruppi sotto lo pseudonimo Philip Liss. La notizia nel frattempo si stava diffondendo all’estero, ed aveva iniziato a circolare su Reddit una presunta lista di 50 prove.

In Italia

In Italia se ne cominciò a parlare già nel 2016, ma la vicenda divenne nota al grande pubblico soprattutto l’anno successivo per via di un servizio delle Iene secondo il quale il suicidio di un ragazzo livornese sarebbe stato da collegare al fenomeno. Il servizio fece esplodere un caso mediatico, e la vicenda fu riportata da diversi giornali con toni allarmistici, riprendendo spesso le notizie da tabloid britannici. Matteo Viviani, inviato del programma, dovette ammettere in seguito, in un’intervista al Fatto Quotidiano, di aver inserito dei video falsi nel servizio, con immagini tratte dalla Cina o risalenti al 2010. Sostenne di aver ricevuto i video da una televisione russa, e non aver condotto le opportune verifiche. Ma si difese dicendo che comunque i video servivano ad illustrare il racconto, e non sarebbe cambiato molto se si fosse detto esplicitamente che non erano veri. La vicenda era nebulosa e contorta, e le informazioni a riguardo erano molto poche. Ma tutti i grandi giornali ne parlavano, e l’allarme si era ormai diffuso.  

Il ruolo dei media

Il tema, divenuto di dominio pubblico, generò grande preoccupazione fra i genitori con figli adolescenti, e nelle procure iniziarono ad arrivare diverse segnalazioni, che nella larghissima maggioranza dei casi si rivelarono del tutto inconsistenti. Questa attenzione mediatica provocò anche diversi problemi. Il 29 maggio 2017, intervistata dal Corriere, la presidente dell’Osservatorio nazionale sull’adolescenza Maura Manca raccontava di come ogni forma di autolesionismo, spesso in realtà una richiesta di aiuto da parte dei ragazzi, fosse in quel momento etichettata come Blue Whale, oscurando problemi che esistevano già in precedenza (ed esistono tuttora) e per i quali erano necessarie altre soluzioni. E la copertura mediatica poteva anche spingere a forme di emulazione, sia da parte dei ragazzi vulnerabili spinti a imitare un gesto suicida dopo la diffusa copertura di questo da parte dei media (un fenomeno, riporta Valigia Blu, conosciuto come copycat suicide), sia da parte degli istigatori. E questo, pare, è ciò che è accaduto alla venticinquenne milanese, con già alcuni problemi pregressi, per la quale oggi è arrivata la condanna.

 

Foto: Palazzo di Giustizia di Milano | Paolobon140 su Wikimedia Commons